Era il ’60 quando per caso o forse per gioco, approdai in quello che allora era “il campetto degli Orfani di Guerra”. Sono in fondo figlio di quel rettangolo, di quell’incredibile mondo fantastico che allora faceva sognare (ci voleva poco…) me e tutti i ragazzini della mia età. Era così seducente che mi coinvolse senza potessi opporre resistenza. Calciando un pallone, correndo, saltando, lanciando, piano piano inventai una favola bellissima.
Poi, un giorno, le ragioni “edilizie” soffocarono quel fazzoletto di terra e con esso la mia allegria. Ma a tutti si può dare il confino tranne che alla fantasia che subito spaziò scatenata sulla carbonella del vecchio Romagnoli che mi accolse e diede fiato alla mia favola. Tanto calcio, e poi tante corse quando una pista rossa incorniciò il campo di pallone. Un giorno, ancora una volta, arrivò la doccia fredda: la pista fu rosa da interessi pedatori d’alto bordo e scomparve per permettere a chi non ha mai fatto sport di star più comodo di glutei sui gradoni dell’impianto. La carbonella si trasformò in erbetta e con l’erbetta furono esclusi i bulloni di chiunque non avesse le stimmate di calcio prezioso.
Addio galoppi e rincorse: neppure nel mio cervello trovavo più spazio per dare alla mia giovinezza un’allegria da coltivare. Ma venne il giorno del campo scuola Coni: fanfare, rulli e di tamburi e voilà: un impianto per tutti i giovani, verde e spazioso… quasi da non crederci! E siccome la fantasia muore e risorge eccola di nuovo a pungolarmi dentro e a dirmi: forza, avanti, a tutta birra!!!
Poi, di nuovo il crollo: a crollare davvero fu la curva di quell’impianto che sembrava inossidabile e sotto le macerie parve spegnersi il volo anche dei miei sogni. Speculazione e negligenze hanno allontanato tanti ragazzi da quell’oasi di serenità e li hanno spediti diritto all’inferno: nella violenza del quotidiano, nell’emarginazione, nella droga.
E allora la mia fantasia? Risorse ancora perché, come negli anni addietro, aveva affittato un gabbiano… Un gabbiano gialloblù più forte di qualsiasi disperazione. Un gabbiano che ha covato la Su e Giù e tante cose belle nonostante i venti contrari. Sotto le sue ali possono speranza e fantasia trovare ricovero e dare ancora oggi ai giovani, ai ragazzi e agli adulti un motivo per guardare avanti, nonostante tutto.
Grazie Virtus, solamente grazie.
Roberto Palladino
1984 – Cara nemica
Quando Nicola Palladino mi ha invitato ad ardare a briglie sciolte in questo “pezzo” che doveva corredare la pubblicazione che accompagna la undicesima edizione della “Su e Giù”, mi sono sentito gratificato. Non nascondo una mia vecchia segreta ammirazione per la Virtus. E chi fa queste rivelazioni è stato un acerrimo rivale della società con i colori giallo-blu. La Virtus mi riporta alla mente goleade fantastiche, partite lunghissime che duravano ore, con tanti goals; allora non c’era ostracismo e si segnava, si segnava tanto, anche se, siccome non c’erano le reti e neanche le traverse nelle porte erano innumerevoli le contestazioni. Ma vi garantisco che era bello, molto bello.
Il mio drappello di “scapestrati” formava una formazione da “armata branca-leone”‘ Sulla carta noi del Gladiator eravamo di gran lunga i più forti, ma proprio per il nostro spirito bollente, un po’ ribaldo, alla fine ci facevamo uccellare dai ragazzi della Virtus, guidati dal sapiente Leo Leone. Verso il quale non nego di aver avuto sul principio anche una certa antipatia, appunto perché col suo “ora et labora” riusciva a dare una organizzazione precisa ed efficace ai suoi ragazzi che alla fine avevano sempre il sopravvento su di noi, eterni secondi.
C’era Nicola Palladino, poi arrivò Claudio De Libero e quindi tutti gli altri da Aldo Pece, Attilio Mosca, Mario Oriente, Antonio De Santis e tanti altri che fanno capolino nella mia mente, ma il cui nome mi sfugge. Le nostre sfide (si chiamavano proprio così) le iniziammo sul campetto degli Orfani di Guerra, che provvedemmo a spianare con buona lena, domenica dietro domenica, rubacchiando materiale edilizio ad un cantiere attiguo al rudimentale terreno di gioco. Ho avuto, tanti anni fa (25 se non ho sbagliato il conto) la sensazione, nei campionati disputati al “Campo Sportivo” che sotto sotto gli arbitri aiutassero la Virtus che si era fatta la nomea di squadra di bravi ragazzi.
E questo fatto mi bruciava dentro. Ma solo adesso che mi son venuti fuori i capelli bianchi e lo spirito goliardico ho lasciato il posto ad una più pacata ragione, debbo riconoscere che le nostre ammonizioni, le espulsioni e le troppe squalifiche erano il triste retaggio del comportamento della mia “armata Brancaleone” costituita dai Gaetano Mascione (in arte Thomas), da Luciano Di Vico (in arte Bolotto), dai Nicola Palazzo, Franco Mite, Tonino De Cesare, Peppe Mastrapaolo ed altri, tutti con la vocazione della polemica e della protesta a fior di labbro.
Da quando ho smesso di far calcio giocato a livello giovanile, pensando a dedicare più tempo allo studio che ad emulare il sinistro di Corso, anche se sono stato un riveriano fottuto, ho iniziato ad avere una certa ammirazione per la Virtus. Il mio gruppo si è sparpagliato, come sul campo. Quelli della Virtus non si sono limitati a far famiglia, ma sono cresciuti insieme e hanno fatto gruppo sportivo anche con mogli, figli e cani (vedi Roberto e Nicola Palladino).
Per ragioni di studi, di militare e di lavoro ho perduto contatto con la mia città per qualche anno e quindi anche con la Virtus. Ma in una fredda e piovosa domenica di novembre vedo in strada in tuta centinaia di giovani che sfidando l’inclemenza del tempo e la proverbiale pigrizia dei meridionali, correva per le strade della città. Si correva una delle edizioni della “Su e Giù”. Quelle facce infreddolite e livide di bambini, la forza di quei ragazzi a spingere muscoli stanchi e intirizziti mi ha fatto riflettere. Riconosco di non aver mai partecipato ad una “Su e Giù’.
Non lo faccio per demagogia, ma avrei tanto voluto farlo. Ora no, per motivi professionali non posso più partecipare a questa festa di novembre, a questa straordinaria civetteria che la città si concede una volta all’anno per festeggiare lo sport, quello che non ha interessi finanziari di fondo. Le testimonianze di questo avvenimento mi arrivano dalla tv, la sera quando torno da una trasferta dei rossoblù, finita molto spesso anche con la sconfitta della nostra squadra.
Gennaro Ventresca
1984 – I protagonisti Sempre attivi,
come laboriosissime api, dinamici, grintosi, sono l’immagine viva della gioventù che non molla, nonostante tutto e tutti. Chi sono? Un manipolo di giovani che, con azione generosa e disinteressata, cerca di dare una nuova dimensione alla fraternità e al vivere sociale. Scusate! Ho detto giovani, tra loro c’è chi ha perso qualche capello e chi li ha brizzolati, a me, però, piace ricordarli nel momento in cui furono contaminati dalla ‘passionaccia’ che ancora, con immutato spirito, li lega all’attività sportiva. E la stessa di quando li ho conosciuti la prima volta, quando, cioè, inciampavano nei versi di Omero e nelle prime scarpette da ginnastica.
Nicola, Sergio, Roberto e tanti altri, qualcuno, purtroppo, non c’è più. Che dico! È qui con noi, in testa al gruppo, più in alto di tutti. Questa famiglia che interpreta lo sport come gioco e come occasione di partecipazione sociale, trova il segreto della sua coesione nell’amicizia e nel calore umano.
La coesione del Gruppo Sportivo Virtus non è stata creata solo dallo sport, ma da un’esatta interpretazione del vivere insieme, dal saper inserire e responsabilizzare i giovani, da una corretta scelta educativa. Sono tutti dirigenti, sono tutti atleti, sono tutti operatori sociali, sempre li, pronti a rimboccarsi le maniche per incominciare daccapo; pronti anche a mugugnare, ma ne hanno acquisito il diritto, avallato da anni di sacrificio, spesso tra l’indifferenza generale.
Questi ‘giovani’ con la ‘Su e Giù’ hanno messo al servizio della comunità le loro capacità organizzative e morali per regalare alla nostra città una manifestazione che ormai è entrata a far parte delle tradizioni più belle. Avanti tutta! Lo sforzo per realizzare iniziative di così alto valore sociale vi colloca in una dimensione non accessibile a tutti. Adalberto Cufari