È novembre, ormai il profumo aspro dei mosti è diventato vino.
Anche per il 1985 la maturazione è avvenuta. L’annata è buona, il vino si presenta fortemente alcolico così come puntualmente si ripresenta la “Su e Giù”.
Una manifestazione di carattere socio-sportivo-popolare.
Si ripropone ormai da anni non soltanto come storia di atleti, di agonismo, di confronti tra i giovani e meno giovani.
È anche la storia di un modo diverso di fare spettacolo sportivo, in una disciplina che assomma vecchi problemi di impiantistica e di spazio, che riproponendosi in tutta la loro evidenza sembrano dirci che ormai sono patrimonio inalienabile dell’appuntamento annuale del Gruppo Sportivo “Virtus”.
Questa manifestazione, cominciata in maniera quasi inavvertibile parecchi anni fa, è proseguita con una progressione “morbida” e sta raggiungendo una fase di accelerazione al termine della quale potrebbe riservarci per il futuro grosse sorprese.
La Su e Giù è una manifestazione diversa, con motivazioni e finalità turistico-sportive per risvegliare l’ambiente alla riscoperta della propria città.
È anche questo un modo di fare lo Sport, di intendere lo Sport, di amare lo Sport, e la Virtus Società sempre attenta allo sviluppo e non al degrado dello Sport, patrimonio di tutti, non poteva eludere e disattendere all’organizzazione di questa tipica manifestazione.
Il valore, la passione, e la competenza dei Dirigenti della Società, confermerà, ammesso che ce ne fosse bisogno, la volontà del Gruppo Sportivo Virtus, di tenere fede all’impegno assunto verso la Città di Campobasso, del Molise e oltre confine, e verso se stessi.
Ecco cos’è la Su e Giù, è come un buon bicchiere di vino che portato alle labbra scende dolcemente per guardarne il fondo gustandone il sapore, è poi… l’ebrezza di una rinata gioventù.
Per questo sono grato ai Dirigenti, a tutti coloro che raccoglieranno il loro invito con la partecipazione, perché tutti accomunati renderanno un buon servizio alla causa dell’ideale sportivo.
Giuseppe Ruffo
1985 – Supposte e sedia a rotelle
Una febbre galeotta alla vigilia della scorsa edizione della “Su e Giù” ha tolto di gara uno di quei piccoli protagonisti di questa festa di sport. Si tratta di mio figlio Nico, di dieci anni, che mi tenne celato il suo stato febbrile per paura di non poter partecipare a quell’appuntamento di sport senza odore di contratti, di milioni, di prevalicazioni, di pastette.
Quando il sabato sera gli occhi rossi e il volto smunto di Nico mi fecero appurare che il mio figliolo aveva il classico febbrone da cavallo, scoppiò a piangere e supplicando mi disse:
“Mi metto anche la supposta, ma domani non posso mancare alla Su e Giù”.
La febbre quella notte non è passata e Nico, è rimasto, logicamente, a casa, senza la sua Su e Giù. Sono riuscito a convincerlo che non poteva assolutamente mettersi in tuta e che – suo malgrado – l’appuntamento lo doveva rinviare di un anno.
Chissà quella mattina quanti bambini come Nico avranno pianto e col nasino schiacciato contro i vetri della finestra, si saranno messi di vedetta ben presto per vedere i gruppi di persone, che con le loro tute variopinte si apprestavano a raggiungere il luogo del raduno.
Questo episodio deve far riflettere gli osservatori più superficiali che ritengono lo sport solo un fatto di interesse economico, di incassi a molti zeri, di protagonismo a tutti i costi.
Non voglio far l’apologia della Su e Giù. Non ha bisogno questa gara novembrina di lodi o di indorature. Per essa parlano le cifre, i numeri, che al contrario di qualsiasi filosofia saranno rigidi e ruvidi finché si vuole, ma eloquentissimi.
Mettere insieme tremila persone – perlopiù giovani – in una città morale e ballerina come la mia è cosa trascurabile. A noi piace andare al corso, davanti al “monumento”, ma non certo in tuta.
Ci riversiamo al corso in massa, come se ogni sera fosse una festa alla quale non possiamo mancare. Ma al pensiero di metterci in tuta; di sudare, di correre con le proprie gambe, contro tutti, e soprattutto contro se stessi non ci aggrada tanto. Molto più facile e comodo dire di Mazzia, di Maestripieri o, se permettete, di qualche bella brunetta con gli occhi languidi come quelli della Muti.
Insomma riunire tremila persone in tuta, in una domenica di novembre è risultato grandissimo dalle nostre parti, che meriterebbe un Premio Oscar all’anno. O quantomeno uno “Sportivo” all’anno. Ma anche a questo sto pensando, per il futuro.
Tra gli altri, tra tanti anonimi amici dell’atletica, ecco che ne ho scoperto uno, che è una figura caratteristica della nostra città.
Con la sua carrozzella di invalido anche Alfredo De Viesti, tabaccaio di vecchia milizia dei Monopoli di Stato, ha voluto farsi trovare alla Su e Giù. Con la forza dei bicipiti, Alfredo De Viesti ha fatto ruotare, quasi a mulinarla, la leva della sua sedia da invalido. Era lì, col berretto da ciclista sui capo, portato con la visiera alzata e l’espressione dura di Francesco Moser.
De Viesti è uno dei tanti esempi che potrei narrare in questo “pezzo” che gli amici della Virtus mi hanno chiesto, facendomi andare a ruota libera, senza né un tema, né una lunghezza.
E abituato come sono al rispetto dei tempi (televisivi) e delle righe (giornali), ecco che mi sono consentito queste divagazioni.
Perché la Su e Giù è anche divagazione. Anche se gli organizzatori ad ogni manifestazione annuale hanno voluto attribuirle un tema nuovo, diverso. Per me la Su e Giù ha comunque un tema fisso: lo sport. E qui lo sport è inteso ancora nella accezione più pura, nei suoi connotati più semplici, nella sua essenza più succosa. Alla Virtus lo sport è solo lo sport, un fatto dilettantistico, di agone e di muscoli, ma soprattutto un fatto che ci fa vivere a misura d’uomo.
E con i tempi che corrono credo che questo sia il messaggio più bello che possa arrivare ad ognuno di noi, una volta all’anno.
Peccato che anche quest’anno, come in quelli passati, potrò vedere, per motivi di lavoro (la Su e Giù si corre quando il Campobasso gioca fuori casa) solo la partenza della gara. Non lo dico per piaggeria, mi piacerebbe tanto mettermi in tuta ed accompagnare per i chilometri del percorso il mio figliolo.
A tanti papà che il lavoro consentirà di essere a casa in questo giorno rivolgo l’appello di accompagnare i loro bambini alla corsa, senza vergogna. Perché lo sport attivo non è vergogna; a qualsiasi età si abbia la forza e il coraggio di praticarlo.
Gennaro Ventresca
1985 – Un’ancora
lo ci credo. Lo sport, anche quello agonistico, aggregando gli entusiasmi giovanili, conferisce valenze universali al proprio messaggio.
Anzi l’affermazione di quel messaggio, è la conferma della universalità dello sport.
Lo sport è un’ancora. Forse è divenuto un qualcosa cui aggrapparsi.
Lo sport è l’appiglio, il perno intorno al quale far ruotare l’impegno dei giovani.
Parliamoci chiaro, senza nasconderci dietro il dito dell’ipocrisia e dei luoghi comuni.
I miti son caduti: tutti, o quasi. I valori sono, purtroppo, cambiati.
Non c’è contenuto che non sia messo in discussione.
Non c’è, soprattutto, anello di congiunzione: il tutto è avvenuto in modo rapido, troppo brusco.
Pochi han costruito false ideologie per molti.
Sulla pelle dei giovani, sul loro naturale entusiasmo, sulla loro giustificabile adesione.
È rimasto un vuoto, un baratro da colmare, un senso di smarrimento interiore, al crollare dell’ultima “fede”, che va rimosso.
Alcuni (e, Dio salvali, in numero crescente) hanno identificato nella droga il rimedio per i mali dell’anima.
Altri nella diurna pigrizia di giorni tutti uguali, trascorsi in attesa, in attesa perpetua, senza mai agire.
Molti nello sport, ed anche qui il numero è in espansione.
lo ci credo. Lo sport, anche “quello agonistico”, può essere l’ancora.
Da calare nel mare delle indifferenze, delle inettitudini, degli arrivismi, delle ruberie, delle slealtà, delle finzioni, delle parole. Ora per sopravvivere, domani per rilanciare i veri ideali.
La “Su e Giù” mi ha insegnato questo. E con questo la convinzione che la volontà, quando è abbinata alla coscienza dei propri diritti, possa rimuovere ogni barriera.
Le ostilità palesi non hanno sfinito i generosi.
Mai. Cosi non è morta, come qualcuno nell’ombra ha auspicato, la “Su e Giù”.
Anzi è cresciuta. Si è dilatata. Gli attori dei giorni che furono hanno fatto da lievito producendo la “folla” di oggi.
E non è contraddirsi, non è tornare sui propri passi il cercare, nelle ore del “tutti insieme di corsa”, l’essenza agonistica.
Lo sport è nato agonismo e solo dalla massa nasce il campione.
Gli oltre due lustri di “Su e Giù” hanno visto l’anziano ed il giovane, il piccolo e il grande, il fresco e l’affaticato, l’entusiasta ed il deluso tutti cimentarsi sull’identico tracciato, mossi dall’identico spirito. Ed accanto ad essi anche i migliori talenti del fondo molisano: ricordo Mario Perna su tutti, e Maurizio Paladino, ed Eugenio Berzo, e Pasquale La Stella e potrei dirne molti.
È giusto così: l’agonismo, il voler prevalere, con lealtà, è nella natura dello sport. Come v’è il saper accettare la caduta, la sconfitta con serenità e senza rimpianti.
La lezione di vita dello sport e della “Su e Giù” è tutta in questo legame: non c’è vittoria senza sconfitta, non c’è esaltazione senza abbattimento. Non ci siamo noi senza ali altri.
Comprendere questo nesso innato allo sport, vuol dire apprendere l’insegnamento e porsi con vedute nuove difronte al mistero dell’esistenza. Della coesistenza, vorrei affermare.
La “Su e Giù’ ci ha dato anche questo, in oltre due lustri.
Il partecipare con umori simili e simili intenti, il fare, quasi, corpo unico in quel palpitante serpente multicolore, il conoscere la propria fatica ed apprezzare quella degli altri non può non aver generato (in ognuno) un senso di identificazione con gli altri e con il mondo.
E con questo senso, la sconfitta dei falsi miti, dei rimedi vuoti, dell’assidere senza voglia di scuotersi.
Lo sport, cosi, diviene veramente un’ancora, un messaggio dai contenuti universali e perenni.