14^ Su e Giù - 1987

1987 – Lo sport più difficile

Mi sto facendo vecchio ma ancora non riesco a spiegare che cosa mi succede dentro quando s’annuncia e prende forma un desiderio di vivere un’esperienza nuova, un bisogno di inserire un grano più lucente nel rosario delle cose di ogni giorno.
 
Non parlo di quelle voglie improvvise e veloci che salgono alla gola come le bolle nell’acqua, e poi svaniscono: parlo, invece, di quegli impulsi che fioriscono lentamente come piante verdi e tenaci e che dal cuore allungano le loro nervature negli angoli più lontani del corpo, portando calore, mettendo tutto in movimento.
 
Si è presentato così, come l’emergere di una pianta lenta e inarrestabile, il desiderio di rompere la tramatura fittissima delle abitudini quotidiane e degli impegni che si affilano come i soldatini delle guerre finte dei ragazzi per trovare il tempo ed i luoghi di uno sport nuovissimo, quasi sconosciuto, quello di camminare.
 
Per anni, per decenni mi è cresciuta addosso una specie di sindrome di ossificazione, una progressiva tendenza alla rinuncia a camminare, che prima ancora di prendere il corpo ha preso la mente, si è nascosta nelle abitudini.
 
È una malattia vera, seria che richiede l’uso di protesi moderne e sempre più efficaci: la macchina, l’ascensore, il recapito a domicilio.
La città è stata ridisegnata dal progredire della malattia: ha perduto i siti inessenziali, i passi perduti dei piccoli piaceri, degli incontri casuali, è diventata povera e scheletrica, tutta bloccata sulle direttrici funzionali e sui luoghi dell’obbligo, dei doveri.
 
E poi, non è più la città di tutti ma ognuno ne ha una, quella dei percorsi della sua macchina: l’ingorgo non è l’incontro ma l’intreccio delle solitudini, la somma degli obblighi e delle fatiche personali.
 
È, inoltre, una malattia epidemica che risparmia poca gente, che colpisce, in particolare, i giovani, per il fatto che non hanno quelle particolari difese immunitarie derivanti dai ricordi, dalle immagini di una vita e di una città diverse. I miei figli sono capaci di reggere allenamenti che schianterebbero un bufalo negli sports che praticano, ma piangono un giorno ed una notte se debbono attraversare la città a piedi per andare a casa dei nonni.
 
A questa malattia insinuante e progressiva, un po’ alla volta sto tentando di ribellarmi. Non so dire come e perché, ma voglio provarci.
All’inizio, ho cercato di darmene una ragione: la vita troppo sedentaria, primi segnali dell’artrosi, la cinquantina che tra poco mi si rovescia addosso come un’onda di libeccio…Coraggio, gioventù, la salute prima di tutto!
 
Ma, a pensarci bene, non è nemmeno questa la molla vera o, perlomeno, quella prevalente.
Sotto le spiegazioni della ragione, c’è una cosa lontana, profonda, fatta di molti sentimenti e di molti umori: l’appannamento di tante cose che sembravano rilucenti e variopinte, il senso di costrizione di un sistema di vita pieno ad un tempo di troppe comodità e di troppi impegni, la voglia di libertà che alla fine rompe anche la scorza più dura delle abitudini, la ricerca di un rapporto con le strade, i campi, i fiumi, il cielo che sembra sfuggire giorno per giorno come la sabbia tra le dita….
 
E cosi ho scelto questo sport antico e modernissimo, inusuale, povero e gentile, umanissimo: camminare. I primi passi con la rigidità e la pesantezza del bambino che lascia la gamba del tavolo o la mano che lo regge ma anche con l’ebbrezza della scoperta, con il calore della vitalità che riemerge, con la confidenza di un dialogo che riprende con gli alberi, i venti, gli angoli, gli occhi della gente che s’incontra.
 
Su e giù per la città, per la “mia”, la “nostra” città, quella dove vi sono i luoghi seri e obbligati e quelli inessenziali e futili, quella che contiene i pensieri e le angosce e anche i godimenti e gli stupori, quella turgida di problemi e di cose e di ricordi degli spazi e dei suoni dell’infanzia.
 
Ma come un bambino ai primi passi mi sono trovato presto difronte a nuove regole, a nuove contraddizioni, a nuove mutilazioni. I percorsi sono diventati incerti e scomodi camminamenti soffocati dalla puzza delle macchine, dai rumori, dalla polvere. Una quotidiana, estenuante violenza si consuma sugli equilibri delicati di una città nata per essere misurata con i passi, lo sguardo, la voce e oggi sottoposta ad una pressione di traffico, di presenze, di attività incompatibile con la sua natura e con la sua dimensione. Essa continua ad essere sventrata e ricomposta da lavori interminabili che sembrano ricominciare sempre dallo stesso punto, senza senso.
 
Forse è per questo che negli spazi mentali che il camminare mi concede, si riapre un andare “su e giù” lungo i percorsi della memoria e della nostalgia, delle emozioni rarefatte e lontane. Viaggi lunghi e rasserenanti verso l’infanzia, verso i suoni e le voci dei giochi e degli incontri, delle conoscenze e delle scoperte, verso i passi risuonanti sulle pietre e soffocati dalla neve, verso i trasalimenti dei venti puliti e taglienti di tramontane, verso le immagini delle strade senza macchine delle domeniche di crisi energetica.
 
È una “Su e Giù” della memoria, morbida e gratificante ma sfumata e un po’ falsa. Non riesco ad appagarmene veramente.
Ecco perché continuo a desiderare e a chiedere di potere fare il mio sport antico ed attualissimo, camminare, in una città vera ed ospitale, pulita e vivibile, senza essere costretto a rassegnarmi di dovere camminare lungo le strade dei ricordi e delle nostalgie.
 
Norberto Lombardi
 
 
 
 
 

1987 – “Su e Giù”: festa dello sport in libertà 

Grandi protagonisti sono stati i bambini che hanno ingaggiato vero duelli coi loro genitori. Il risvolto ecologico della gara.
 
UN’AVVENTURA PRET A POR-TER.
È stata la Su e Giù di Salvatore Genovese. La Virtus ha dedicato all’amico di Bojano la sua gara più bella per legarlo ai cuori dei quattromila che hanno corso anche per onorarne la memoria. E sarà difficile cancellarlo perché impalpabile Salvatore ha viaggiato nei discorsi della gente, ha brillato nella commozione di chi lo ha conosciuto, ha vibrato nel petto di quanti ne hanno sentito parlare. Una vita breve ma densa quanto un pugno chiuso, se la virtù dell’esempio non è ancora caduta in completo disuso, penso che chi ha vissuto con Salvatore potrà testimoniare il peso e lo spessore che codici di comportamento onesti e leali, comunque e dovunque, trovano il modo di affermarsi e consolidarsi.
 
È STATA LA SU E GIÙ DEI BAMBINI.
Uno, alto appena più di un comò, ha confessato candidamente che la festa vera non è più la befana, adorabile bluff, ma solo questa gara, perché appartiene ad ognuno soltanto, quindi esiste per davvero, perché la si può vivere secondo ghiribizzo e senza regole dettate da altri. Sono stati oltre duemila i ragazzi giunti al traguardo dei 7.250 metri. Invece un gruppetto di bricconi, sfuggendo al controllo di chi voleva bloccarli è approdato alla mezza maratona; erano circa una cinquantina e sono arrivati arzilli come pesci di fiume. E un episodio fra i tanti; una mamma ha atteso la sua bambina nascondendo fra le mani un rametto fiorito.
Quando l’ha vista approssimarsi al traguardo, con un gesto che ha sapore solo se lo inventa una madre, lo ha consegnato alla figlia cingendole poi le spalle. Era l’affettuosa testimonianza per una piccola, grande impresa, il riconoscimento per una prova che significava più dei chilometri percorsi, che rappresentava quasi un rito di iniziazione per una stagione diversa della vita. 
 
ED I FIGLI SI SONO TRASCINATI APPRESSO I GENITORI.
Quest’ultimi sembravano stanche derive. «Sono i figli a completare l’educazione dei padri», lo ha detto Goethe. Ed è vero, come profondamente vero è che i bambini di fronte alla vita hanno meno sospetti meno disincanto, sogni non ancora inquinati: la proposta di una gara così trascinante li ha fatalmente invischiati.
Ma c’erano anche adulti venuti da soli; per un giorno, e perchè non per sempre? Hanno ripudiato lo sport immaginato e mai consumato, guardato e mai posseduto, hanno colto la prima mela….Sfatti e sdirenati da uno sforzo inusuale hanno riassaporato la gioia di un corpo di cui sono stati defraudati senza opporre resistenza. E come il lupo di London in tanti hanno fiutato il vento e si sono accorti che era l’accessione per tentare di recuperare i valori per i quali lottare: in testa a tutti, quello della efficienza fisica, poi quello dello stare insieme, della solidarietà, dell’aggregazione. La Su e Giù era lo stimolo per riproporsi e tentare di cambiare. In migliaia hanno rotto l’ingessa-tura che li incatenava e sono andati lungo la strada. In tanti continueranno ad andare perché correre e sentirsi liberi dà felicità.
 
ED È STATA LA SU E GIÙ DELL’AMBIENTE
Lo sport ha molto da spartire anche con i principi dell’ecologia. Laddove la filosofia e la pratica sportiva realizzano ed innescano meccanismi virtuosi, questi si riverberano immediatamente all’esterno, attivando atteggiamenti di rispetto e di considerazione per ciò che circonda l’uomo.
Offendere, violare, profanare, ledere sono verbi che non sono coniugati da chi vive l’attività sportiva mirata alla dilatazione della propria personalità e della propria cultura. Egoismo, arrivismo, ingordigia, mirano invece alle radici il rapporto fra la gente e inquinano quello delle persone con l’ambiente. Lo sport può tentare con l’autenticità del suo umanesimo di riequilibrare una bilancia che pende sinistralmente verso il disastro.
La Su e Giù invece di partorire parole, come spesso si è fatto nell’anno europeo dell’ambiente, ha disegnato un itinerario nei guasti della città, fra gli striminziti giardini e lungo stradine di periferia fiorite da discariche abusive e da immondizia. Ma la denuncia è stata rivolta a tutti e aveva l’indirizzo di ogni persona, ad ogni famiglia della città.
Nessuno può chiamarsi fuori di fronte ad un degrado che sembra irreversibile. Se qualcosa cambierà è perché tutti assieme lo abbiamo voluto.
 
LA GARA.
Al fatto agonistico erano presenti i crack del fondismo regionale. Perna, vigoroso e motivato ha fatto sua la prova più lunga, precedendo Maurizio Paladino, un cammello mai sazio di chilometri, e Di lorio Angelo che ha meravigliato per potenza anche i suoi estimatori più accaniti. Teodoro Simone si è agevolmente imposto nella prova più breve regolando il compagno della Virtus Silvio Alberti ed il bojanese Gasbarro. Fra le donne su tutte le «diesel» sorelle Dato.
Uno splendido trofeo ha premiato i 4226 partecipanti che hanno sfidato pioggia e freddo. Perfetta l’organizzazione del G.S. Virtus coadiuvato mirabilmente dai Vigili Urbani dall’Avis dal gruppo Agesci dal FIR Molise; un grazie al Comune di Campobasso patrocinatore a vita della manifestazione, e a Foreste Molisane. Arrivederci alla 15ª edizione.
 

Nicola Palladino


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