34^ Su e Giù - 2007

2007 – Verso la grande corsa di metà novembre arrivano le considerazioni di un vecchio cronista

CHE TRISTEZZA QUEI PROVETTI RAGIONIERI
Conti in tasca e frivolezze per un appuntamento che invece ha un valore sportivo sociale immenso

GENNARO VENTRESCA
Ciò che più imbarazza sono gli elogi meritati. Confesso: faccio fatica a scrivere della Su e Giù. Proprio perché si corre il rischio di scivolare nell’ovvio, persino nel banale. Quando per un lunghissimo tratto della nostra vita, ogni anno, a metà novembre per mestiere o per piacere bisogna occuparsi della corsa podistica su strada non competitiva organizzata dai miei amici della Virtus, assieme al piacere antico provo anche un po’ di disagio.
In qualche modo mi sembra di rivedere un film già visto, uno di quei filmoni che comunque ti appassionano impadronendosi dell’anima, sino a crearti un fremito che solo per pudore non si ha coraggio di chiamare emozione. Si, quando intorno alle nove del mattino della domenica fissata dai promotori de la Su e Giù, mi reco in strada per assistere al prologo della gara, inizio spontaneamente ad avvertire i primi sintomi di una giornata speciale. Che accrescono sino ad arrivare al top quando lo starter spara il colpo di pistola dalla base del monumento ai caduti. Si sprigiona la gioia incontenibile nel vedere migliaia di gambe che iniziano a sollecitare i muscoli per dare vita allo spettacolo ludico più spettacolare e memorabile che si vive nel nostro piccolo e tartassato Molise. Da cronista osservo gli aspetti più caratteristici della corsa, cercando di andare a leggere nelle pieghe della manifestazione i segnali più importanti da riportare in cronaca. Le tute, le magliette, i cappellini e le scarpette griffate ormai non fanno più notizia, mentre offrono ancora il loro profondo significato i molti disabili, taluni seduti sulle loro carrozzelle, che non vogliono e non possono mancare all’appello. La delicata Adelina De Soccio, campionessa di sport e di vita, nel chiedermi con cortesia di scrivere un pezzo per il giornale della Virtus, mi ha assegnato un tema. Ma probabilmente uscirò fuori traccia. Per questo mi scuso con lei e con i lettori per non aver imboccato la strada maestra, e di aver superato i margini. La Su e Giù non ha bisogno di violini, né di mandolinari, né tanto meno cerca cortigiani. Per lei parlano decine di edizioni, ci sono intense pagine di storia sportiva che la rendono nobile e incancellabile. Ecco perché vorrei spendere due parole destinate ad alcuni miei concittadini che sono abilissimi a fare le unghie a chiunque, Virtus inclusa. Che c’entrano le unghie. C’entrano e come se c’entrano. E facile fare di conto. Basta procedere senza neppure la calcolatrice: iscrizioni, contributi e sponsor messi insieme fanno fatturato “pesante”. Dovete sapere che sono in tanti che si trasformano in provetti ragionieri per fare il bilancio nelle casse della Virtus, dimentichi di tuttociò che la società nata dal nulla, se non dalla volontà dei Palladino e di Leo Leone, ha fatto per i nostri giovani e per questa sfilacciata società per mezzo secolo. Ogni volta che sento parlare in questi termini confesso che mi viene l’orticaria.
Provo un senso di disgusto che mi mette a disagio e che mi mostra con la lente d’ingrandimento i limiti e la modestia dei molisani. Lasciatemi dire, una volta per tutte, ciò che provo di certi corregionali. Non ce la faccio più a tenermelo sul gozzo. I molisani perdono spesso la parola, spesso dicono quello che non sentono; se l’Italia è la patria del diritto e del rovescio i molisani sono maestri nell’arte di rivoltare la pizza, capovolgere i fatti; quello che pensano lo tengono come riserva, in cova, per le grandi
occasioni, le svolte decisive, le virate di bordo; allora diventano grandi attori, a costo di apparire quello che in sostanza sono, un caleidoscopio di anime sepolte in letargica convivenza e sempre pronte al conflitto, e gridano per farsi sentire anche dai gatti e parlano a bocca larga e a denti stretti come i toscani, salvo naturalmente rinchiudersi come ricci, a imbozzolarsi come crisalidi se il termometro segna mutazione. I molisani parlano quando non parlano, perché quando parlano non parlano, ma più degli altri italiani “sono parlati”. Un molisano può disinvoltamente assumere cinque posizioni diverse in un crocchio di cinque persone e saluta l’interlocutore manovrando la mano in modo che possa sembrare un pugno chiuso o un segno di croce, come l’occasione comanda, come del resto l’occasione ha sempre comandato. I molisani assomigliano un po’ al loro fiume che non vuole mai arrivare: al Molise che per arrivarvi fa le bizze, ora gonfiandosi, ora aggrappandosi agli sterpi, ora assottigliandosi.
Stagnando come una pozzanghera, e se non fosse per le spinte della pioggia e del vento, se ne starebbe come un agnellino a brucare l’erbetta alle pendici del Matese.