49^ Su e Giù - 2022

2022 – Appunti da un viaggio

“I miei mi avevano portato in fasce nella casa che sarebbe diventata per me il perfetto luogo dell’anima. Quando da grande ho scoperto di essere nato in una casa diversa e in un’altra zona del paese ho capito che luogo vero dove nasci è quello dove sono cresciuti i tuoi sogni.” Da La luce negli occhi, appunti di viaggio di un pittore, di D. Fratianni)

Ho pensato molto a mio padre, in questi giorni. E per trovare la tela, il dipinto, l’immagine che meglio suggerisse il messaggio che la Famiglia Virtus vuole lanciare con la Su&Giù di quest’anno, ho passato molto tempo nel suo studio, a riguardare e a spostare i suoi quadri.
Ogni volta che lo faccio sono felice, ma è una cosa che mi smuove dal profondo, che mi costringe a guardare in faccia la Bellezza: una Bellezza che è Nostalgia, Tenerezza e Dolore insieme, che è Mancanza.
Il quadro scelto per la 49^ edizione della corsa simbolo della Città di Campobasso, si intitola Ambiente – Notturno con cielo stellato e figura, ed è un olio su tela del 2005.
Forse non è Montagano, il luogo vero di cui Domenico Fratianni parla nel suo libro di memorie, il suo posto del cuore. Ma ci somiglia. È Montagano che somiglia ai tanti paesi che formano il Molise, la radice da cui non è mai riuscito ad allontanarsi e a cui ha sempre guardato, come la figura in primo piano. Forse l’uomo di profilo non è mio padre, ma gli assomiglia, e assomiglia anche a me e a tutti quelli che nelle radici credono, che dalle radici traggono linfa, che di esse sono espansione.
Domenico Fratianni ha cresciuto i suoi sogni in una casa di un piccolo borgo del Molise e ha continuato a farlo nel capoluogo, dopo esservisi trasferito appena adolescente. Non ha mai smesso di sognare, in Molise, finché ha potuto; non ha mai smesso di “guardarlo”, neanche quando la sua Pittura, l’Incisione e la passione per l’Arte lo chiamavano fuori, e vi è sempre tornato, per avere nutrimento. Per avere pace, tra le sue fondamenta, e per trovare ispirazione e dare materia alla sua Arte. Me lo diceva sempre, per sentirsi sé stesso e ricaricarsi, aveva bisogno dei nostri colori, dei nostri sapori e profumi, della genuinità della nostra gente.
La chiave del dipinto riprodotto sulla medaglia è proprio la figura in primo piano che contempla le case, il centro abitato. È l’uomo e il monito a non dimenticare dove siamo nati davvero e dove dobbiamo tornare per sentirci interi, anche viaggiando e prendendo altre strade, vivendo. A non abbandonare al disamore e all’ incuria i posti che ci hanno custoditi e ci hanno dato l’abbrivio. A coltivare, il più possibile da vicino, l’amore che pulsa nei loro interni, che abbiamo respirato, di cui ci siamo cibati. A prendercene cura, vivendoli e rispettandoli.
Il paese (qui in secondo piano) non è di per sé già un premio, non è già di suo una medaglia? E’ chiuso, stretto da alberi che lo abbracciano e lo celebrano come una sorta di corona d’alloro, quella che in latino chiamiamo laurea insignis, che nella mitologia greco-romana simboleggiava la sapienza e la gloria, che cingeva la fronte degli atleti vincitori ed era simbolo distintivo dei poeti, i cosiddetti laureati.
Non è dunque il paese il regalo vinto in partenza? A mio avviso sì, proprio perché la culla dei propri sogni, dell’educazione, degli affetti, delle prime scoperte, della consapevolezza di sé attraverso gli altri, nelle strade, nei vicoli o nelle piazze del paese, nelle corse fino al campanile o su per la collina rischiarata dalla luna, col suo pigolio di stelle. Perché ogni angolo racconta una storia, che è vita, e milioni di storie che si sono inter-cambiate, che sono passate, ma che restano ancora li, sospese, insieme alle stelle, ad illuminare il cuore della tela, che vogliono essere “raccolte” e interpretate. Restare e continuare a vivere.
“Il posto dove vivi e ti senti vivo è il centro del mondo. la provincia geografica è spesso il luogo della cultura e dell’amore.” (Da La luce negli occhi, appunti di viaggio di un pittore, di D. Fratianni)

Annalisa Fratianni

 
 
 

2022 – Vale ciò che dura

Come forse avrebbe detto Nicola (Palladino): «Giove Pluvio questa volta ci ha tradito». La pioggia ed il maltempo hanno, in Do minore, intonato la colonna sonora della quarantanovesima edizione della “Su e Giù”
Molti non si sono fatti condizionare, una maglia in più ed un cappellino per proteggere il capo e via.
Con proposito voglio superare tutta la ragione del valore sportivo che ha rappresentato e rappresenta la corsa all’aria aperta e gli aneliti di liberazione e di libertà che in essa sono contenuti. Per amplificare certi principi ci hanno pensato Nicola Baranello, Francesco e Roberto Palladino e Carmine Dato.
La manifestazione nata, quando anche io ero in giallo-blu, dopo le prime timidezze, ha assunto una dimensione in cui è stato curato anche l’aspetto commerciale con sponsor che sono diventati sempre più connotativi a dimostrazione che l’evento si è stabilmente radicato nel tessuto connettivo della città.
La “Su e Giù” ha regalato e regala gioia ai bambini e ardimento agli adulti che misurano e commisurano il tempo impiegato con gli inevitabili riferimenti ai risultati degli anni precedenti e alle prestazioni del collega d’ufficio.
Sin qui l’aspetto popolare, per entrare nella profondità del fenomeno “Su e Giù” bisogna chiedersi come ha fatto a resistere senza farsi assalire da propositi di abbandono dopo quasi mezzo secolo di vita. È questo il fenomeno. In una regione, meglio dire una città, (Campobasso) che ha assistito inerme allo sfratto dei bambini dall’edificio di Via Roma cioè dalla Casa della Scuola interrompendo una storia che aveva segnato una staffetta di vita tra le generazioni dei campobassani, in una regione che ha paesi in cui non esiste più una bottega di falegnameria o in cui non è possibile trovare una rivendita dei giornali, trovarsi al cospetto di una manifestazione che l’anno prossimo festeggerà il mezzo secolo di vita peraltro organizzata da una Società, la Virtus, che di anni ne ha sessantatre, c’è materia importante per caricare le ugole e dire: «Bravi! Vale sempre ciò che dura».
Ritrovare oggi con le rughe è senza capelli, quei ragazzi che quando iniziarono con me a tracciare il percorso nel centro storico, avevano il volto pieno di foruncoli e la testa ricco crinita, è una soddisfazione che racchiude una emotività di cui non si riesce a rendere spiegazione.
Tre emblemi della Virtus vanno spinti sul banco della notorietà se ce ne fosse bisogno: Roberto Palladino, Maurizio Paladino e Franco Passerella. Ritrovarli ancora a montare le transenne, a rovinarsi le mani per quello striscione che non vuole saperne di stare tirato come dovrebbe o di appendere palloncini, è anche una occasione per capire che molti di noi non sarebbero stati capaci di durare così a lungo. Vale ciò che dura!
Il tempo che si è allungato così tanto è il successo di una intera città che per una volta ha contribuito a non far morire una storia bella e colorata anzi l’ha spinta disinteressandosi persino dei capricci di Giove Pluvio che Nicola (Palladino) alla fine avrebbe addirittura citato come un alleato funzionale alla corsa che toglie le ragnatele agli angoli bellissimi del nostro
centro storico.

 

Sergio Genovese

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